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Kōan, Kensho, Toro, Zen e … Liberazione

Kōan, Kensho, Toro, Zen e … Liberazione - Lo Spirito

Kōan è una parola giapponese che viene dal cinese 公案 (pinyin: gong'an; Wade-Giles: kung-an). Il senso originale della parola è “legge”, “principio di governo”, o secondo alcuni “documento pubblico”, in giapponese ko: pubblico, e an: regola). In senso generale è un esempio che vuole essere di guida per la vita.

Nella filosofia Zen il Kōan è una frase paradossale o una storia usata per aiutare la meditazione e risvegliare una natura più profonda, di solito narra l'incontro tra un maestro ed il suo discepolo nel quale viene rivelata la natura più profonda delle cose.

L'uso dei kōan è tenuto in massima considerazione presso la scuola Zen Rinzai , che si rifà agli insegnamenti del monaco Eisai (1141-1215), mentre è piuttosto trascurato dalla scuola Sōtō, fondata dal monaco Eihei Dōgen nel 1227 al suo ritorno dalla Cina, che pone l'accento soprattutto sulla meditazione in posizione seduta, o zazen. Secondo Daisetz Teitaro Suzuki (1958) l'esercizio basato sui kōan ha avuto origine per salvaguardare lo Zen dal rischio di degenerare in quietismo o in una comprensione meramente intellettuale.

Presso la scuola Rinzai, o scuola del “cambiamento improvviso”, l'allievo partecipa a periodici colloqui formali con il maestro, chiamati sanzen, durante i quali gli viene chiesto di presentare il proprio punto di vista sul kōan che sta cercando di risolvere. La soluzione di un kōan comporta lunghi periodi di intensa concentrazione durante i quali viene adottata la stessa posizione della scuola Sōtō. Sembra che maestri esperti siano in grado di capire quando l'allievo è vicino alla soglia di un insight e riescano ad avvicinarlo a questa esperienza con atti inaspettati, spontanei ed improvvisi, intesi a bloccare il processo di pensiero concettuale.

 

Esistono tre importanti raccolte di Kōan nel Ch'an e nello Zen: “La porta senza porta” (in giapponese: Mumonkan; in cinese: Wu-men kuan), “La raccolta della roccia blu” (Hegiganroku; Pi-yen lu) e “Il libro della serenità” (Shoyoroku; Ts'ung-jung lu). Con l'andare del tempo si costituì un vero e proprio canone, sistematizzato da Hakuin (1685-1768). Oggi esso ammonta a circa 1700 kōan, divisi in sei gradi di difficoltà. Occorrono circa trent'anni di studio per padroneggiare l'intera materia e diventare un maestro, ma l'addestramento abituale si limita ad una cinquantina di kōan.

 

 

Esempio di Kōan

Un monaco chiese a Chao-chou: «Sono entrato proprio ora in questo monastero. Chiedo al patriarca di espormi la dottrina».
Chao-chou rispose: «Hai già mangiato il tuo riso bollito?».
Il monaco disse: «L'ho già mangiato».
Chao-chou disse: «Allora va' a lavare la ciotola».
Il monaco ebbe un'importante illuminazione.

 

Tratto dalla raccolta “La porta senza porta

 

Scopo del Kōan

 

Qual è lo scopo del Kōan? È quello di umiliare la ragione e di mostrarne l'impotenza. In pratica, è quello di mettere il discepolo - è sempre il maestro zen che dà a ogni discepolo il kōan adatto per lui - di fronte a un vicolo cieco e a una strada senza uscita, da cui deve cercare in ogni modo di uscire. Quando, dopo inutili sforzi, si accorgerà di non poter trovare una soluzione logica e quindi si convincerà di dover abbandonare la ragione logica, egli comincerà a praticare il Kōan nella maniera giusta, riflettendo giorno e notte su di esso con grande intensità fino a che diventerà egli stesso il Kōan. Continuando ad applicarsi, tutto a un tratto, il Kōan scomparirà dalla sua coscienza e questa si troverà completamente vuota. Basterà allora una qualsiasi occasione - un suono che colpisce l'udito, la vista di un oggetto, una sensazione forte - perché il suo Spirito si apra a una “nuova visione” della realtà: è la“illuminazione” (satorì). Questo processo può durare anche alcuni anni e può essere necessario ricorrere a diversi Kōan; però chi si applica con costanza al Kōan sotto la direzione di un maestro zen giunge necessariamente al satori.

Questo consiste in una “nuova visione” delle cose, cioè nel vedere la realtà

                                     “come realmente è”.

Infatti la realtà è unitaria, non duale, come appare al pensiero logico che distingue soggetto e oggetto, essere e non-essere, sì e no, l'io empirico e l'Io (o il Sé) assoluto. Chi giunge al satori vede la realtà non attraverso il pensiero logico, ma intuitivamente: non dunque come appare illusoriamente attraverso lo schermo del pensiero discorsivo, ma come è realmente. È essenziale però notare che il satori non si comprende mediante un'analisi intellettuale, ma soltanto per


 esperienza personale.


 Chi non lo ha sperimentato non può dire che cosa esso sia. E neppure può dire che cosa sia lo Zen, perché, come dice D. T. Suzuki:

 “senza il raggiungimento del satori nessuno può penetrare nella verità dello


                                                Zen”.

 

( tratto da www.uniurb.it )

 

         Il satori è il momento in cui l’intera esperienza personale, proiettata in un unico istante, porta il soggetto a una negazione di se stesso attraverso il superamento della propria individualità.

       Si tratta insomma di uno stato d’illuminazione profonda e duratura che non porta alla rinuncia del mondo esterno, bensì alla partecipazione a esso tramite un atto puro e illuminante.

        Diverso, anche se non di molto, dal satori è il Kensho. Quest’ultimo consiste solo in un fugace lampo di comprensione della vera natura della creazione.

Il satori, seppure venga indicato come uno stato duraturo, non è eterno perché soggiace alle regole generali dello Zen.

       Il buddismo Zen, infatti, riconosce l’esistenza dell’illuminazione come una cosa transitoria nella vita, una rivelazione, e il satori, pertanto, essendo uno stato d’illuminazione, è necessariamente limitato nel tempo.

      La natura temporanea del satori non deve però essere vista come una limitazione.       Il concetto di transitorietà, in questo caso, si avvicina molto a quello di “continuo divenire” sempre presente nella dottrina Zen.

      Anche l’esperienza satori, quindi, cambierà e inevitabilmente si modificherà col cambiare degli stimoli e delle conoscenze.

      La natura transitoria del satori, che si contrappone all’eterno nirvana della religiosità indiana, deve molto all’influenza taoista che il buddismo Ch’an incontrò in Cina, prima di trasferirsi in Giappone.

     Il taoismo, infatti, è una filosofia mistica che, al pari dello Zen, enfatizza il valore e la purezza del momento presente, mentre, le radici hindu del buddismo indiano, legate all’uscita dalla prigione Karmica e al ciclo delle reincarnazioni nel mondo materiale, fanno sì che, in tale dottrina, lo stadio di massima purezza venga concepito come


                               permanente e perpetuo.

 

Tre scalini …

 

Il Kensho è uno scalino, il  Satori è uno scalino, anche l’Illuminazione



è uno scalino

 

la Liberazione è: lo scalino … il -non scalino … ,


 

                                                 quale scalino ?

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