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Introduzione alle Upanishad

Introduzione alle Upanishad - Lo Spirito

La liberazione è la fine della schiavitù alla mente e al dominio dell’ EGO (IO)

 e la  piena realizzazione dell'Atma, o Ruach, o Sahu, o Spirito

Il tema dell’ autorealizzazione nelle Upanishad:una lettura in chiave junghiana Matteo Karawatt, Roma                                                                          

1.Cosa sono le Upanishad.

Le  Upanishad sono il risultato della reazione di alcuni riformatori del periodo vedico all'eccessivo ritualismo dei sacerdoti indù: comprendono speculazioni metafisiche e psicologiche sull'Essere Supremo, sul vero Sé e sull'esi¬stenza in generale. Le Upanishad vengono chiamate anche Vedanta che significa sia la fine che il fine del Veda(1) Le Upanishad contengono in sostanza tutto quanto c'è di profondo nel pensiero indiano. In India esse hanno in¬fluenzato non solo le scuole ortodosse ma anche quelle eterodosse come il Buddismo e il Gianismo. Formano la base di tutte le scuole filosofiche indiane e sono la fonte per tutti i saggi, riformatori e mistici. Anche fuori dell'India queste scritture hanno influenzato parecchi mistici, poeti e filosofi come Max Mueller, Hermann Hesse, Arthur Schopenhauer, Bede Griffiths, ecc. (1) Veda sono l'intero corpo delle scritture sacre indiane. In tutto il mondo non esiste alcun studio così bello e così elevato come quello delle Upanishad - dice Schopenhauer e continua - Esso è stato la consolazione della mia vita e sarà la consolazione della mia morte (2) Le Upanishad non sono trattati sistematici di filosofia, ma un resoconto delle intuizioni di vari saggi e mistici antichi distribuito in diversi secoli. I testi presentano esperienze religiose e congetture filosofiche, espressi sotto forma di dialoghi , parabole, analogie e leggende. Queste scritture non tendono generalmente a dimostrare la verità delle loro affermazioni: l'esperienza personale di ciò che si afferma è considerata già una prova sufficiente per la validità stessa delle affermazioni. Il termine Upanishad e composto da Upa = vicino, ni = devotamente e sad= sedere, vuole perciò significare: sedere devotamente vicino al maestro, indicando così la maniera nella quale la dottrina veniva comunicata ai discepoli. I testi oggi conosciuti sotto il nome di Upanishad sono più di duecento. Uno dei criteri riconosciuti per attestare la canonicità di una Upanishad è il fatto che sia stata commentata da un Acharya, cioè da un interprete auto¬revole. Giudicate in base a questo criterio possiamo dire che le Upanishad più importanti sono quattordici; tea, /Cena, Katha, Prasna, Mundaka, Mandukya, Taìttirya, Ait ha re ya, Chandokia, Brihadaranyaka sono le più importanti. Il compito fondamentale dei pensatori upanishadici con¬sisteva nella ricerca di un principio unitario nella molteplicità dell'esperienza. Essi si domandavano ripetutamente: «Qual è quella realtà per mezzo della quale tutte le altre cose possono essere conosciute?» Gli antichi saggi indù speravano fortemente di scoprire una realtà fondamentale dietro e dentro la molteplicità dell'universo. Essi credevano che con la conoscenza di questa realtà unitaria tutte le altre cose si sarebbero rivelate nella loro essenza e di conseguenza l'intelletto, la mente e i sensi avrebbero ritrovato la loro tranquillità. Questa ricerca dell'unità nella molteplicità portò i pensatori upanishadici a un atteggiamento monistico che si trova alla base dell'insegnamento più sviluppato e più importante delle Upanishad, e che fornisce quella trama di coerenza e coesione interna alla dottrina insegnata che altrimenti rimarrebbe molto frammentaria e disordinata. 2. Perché lo psicologo junghiano si trova a occuparsi anche ditemi speculativi e spirituali Spesso ci confrontiamo con il problema, da una parte della specificità dell'intervento dello psicologo e dall'altra della necessità che egli integri nella sua personalità ri¬sposte relative a bisogni che vanno al di là del meramen¬te psicologico. Per Jung, «La verità psicologica non esclude affatto la verità metafisica»  e per di più il solo discorso sull'istinto non esaurisce completamente il pro¬blema: L'elemento spirituale appare nella psiche anche come un istinto, anzi come una passione, o - per usare un'espressione di Nietzsche -«come un fuoco divoratore». Non è un derivato di un altro istinto, come vorrebbe la psicologia dell'istinto, ma un principio sui generis, cioè la forma ineliminabile della forza pulsionale (4). Del resto tutte le opere junghiane parlano dell'autonomia dello spirito, ma egli sente il dovere di ricordarci la spe¬cificità della psicologia come scienza e pertanto racco¬manda di tenersi lontani dalle affermazioni metafisiche. Secondo la mia opinione, il continuo e necessario riferi¬mento dello psicologo sia al campo medico che a quello spirituale, si basa in ultima analisi sulla divisione ternaria dell'uomo in spirito, anima e corpo; divisione ammessa da tutte le dottrine tradizionali sia dell'occidente che dell'oriente. Secondo Rene Guénon, il fatto che si sia giunti in seguito a dimenticarla a un punto tale da non vedere nei termini di «spirito» e di «anima» che delle specie di sinonimi [...} e di usarli indistintamente l'uno per l'altro, mentre designano pro¬priamente realtà di ordine differente, è forse uno degli esempi più sorprendenti che si possa dare della confusione caratterizzante la mentalità moderna. Questo errore ha d'altronde conseguenze che non sono tutte d'ordine puramente teorico (5).

La divisione ternaria dell'uomo in corpo, anima e spirito era familiare ai greci e più specificatamente ai Pitagorici che in realtà nella loro dottrina cosmologica non facevano che «riadattare» insegnamenti molto più antichi; anche Platone si è ispirato a questa dottrina come è palese dalle sue teorizzazioni.

Nell'alchimia medioevale lo zolfo, il mercurio e il sale furono considerati come corrispondenti rispettivamente al principio di attività inferiore e di forza centrifuga dello spirito (Zolfo), alla forza centripeta e contenente della psiche (Mercurio) e all'involucro corporeo in contatto con l'ambiente interno ed esterno (Sale).

Secondo Jung, pur non essendoci alcuna forma di esistenza che ci possa essere mediata se non per via esclusivamente psichica, tuttavia non si può spiegare tutto unicamente per via psichica. [...] spirito e materia si fronteggiano l'un l'altra sul terreno psichico . Al di là dell'ambiguità di Jung su questo punto, ambiguità derivante dalle esigenze del metodo dialettico basato su tesi e antitesi, sono del parere che lo psicologo analista junghiano nella sua prassi quotidiana non può fare a meno dei riferimenti incrociati sia con la medicina che con il campo spirituale . 3 Brahman e Atman Questi due concetti sono tanto importanti da formare i due pilastri su cui poggia quasi tutto l'intero edificio della filosofia vedantica. La parola Brahman, che dapprima probabilmente significava preghiera o discorso, venne gradualmente a significare il fondamento dell'universo o la fonte di ogni esistenza; ciò da cui l'universo è nato o è stato emanato, ciò che è apparso come universo, oppure la realtà suprema che include tutto. L'Atman probabilmente significava respiro, venne però in seguito a indicare il Sé o l'anima; la realtà più profonda dell'uomo, come pure l'Uno o la realtà fondamentale che comprende tutto. La notevole scoperta che fecero gli antichi veggenti indù fu appunto che i due sono la medesima cosa: Atman e Brahman. Allo stesso tempo i saggi upanishadici erano convinti che quella realtà basilare della loro ricerca doveva trascendere completamente l'esperienza, perciò tentarono di definirlo in negativo, indicando cioè cosa esso non è, piuttosto che dire cosa è. Così secondo la Briha¬daranyaka Upanishad, si può definirlo dicendo soltanto «non è questo, non è quello»: neti, neti(7). 7) Brihadaranyaka Upanishad, II, p. 111. Le Upanishad propongono pure alcune descrizioni in positivo. Le asserzioni in negativo insieme a quelle in positivo ci danno un'idea più chiara del concetto di Brah¬man. Così per esempio nella Brihadaranyaka Upanishad, si dice che il Brahman è coscienza e beatitudine. Alcuni pensatori upanishadici cercarono una risposta a un quesito sulla natura fondamentale dell'uomo: «Cosa sono io nella mia essenza profonda?» Convinti che l'essenza dell'uomo fosse molto diversa da quello che appa¬re agli occhi di tutti, la chiamarono Atman. Nel tentativo di conoscere questo misterioso Atman, i protagonisti della Taittirya Upanishad rivolsero la loro indagine sempre più nelle profondità dell'essere umano arrivando a formulare la dottrina degli involucri, secondo la quale l'Atman è la realtà sottilissima che sta dentro un quintuplice involucro. 1) L'involucro più esterno è quello formato dal cibo, cioè il corpo fisico. 2) Dentro il corpo.fisico esiste lo stato del respiro o dello spirito vitale. 3) Dentro quest'ultimo si trova l'involucro della mente (la mente nella concezione upanishadica ha la funzione di strutturare le percezioni dei sensi esterni e contiene pensieri, passioni e immagini). 4) Nella profondità dell'involucro della mente c'è quello della coscienza (in questo involucro hanno origine il discorso logico e l'intuizione). 5)  Più profon¬do ancora è l'involucro della maya ossia del concatenamento causale individuale e cosmico. Questi involucri nel loro insieme costituiscono la casa empirica dell'atman.  L'Atman è il vero fondamento eterno e immortale dell'esistenza: esso può essere sperimentato solo da coloro che oltrepassano le identificazioni con i falsi sé del mondo oggettivo. I saggi upanishadici, che erano alla ricerca sia della suprema realtà esteriore (Brahman) che della suprema realtà inferiore (Atman) tentarono di trovare la relazione esistente tra le due realtà. L'eccitante scoperta che essi fecero fu che l'Atman non era nient'altro che lo stesso Brahman. Non esisteva alcuna differenza tra il supremo soggetto (Atman) e il supremo oggetto (Brahman). Nella Chandokya Upanishad, c'è un famoso episodio che presenta questo insegnamento meravigliosamente (9). Chandokya Upanishad, III, XIV, pp.1-4 Uddhalaka istruisce suo figlio Svetaketu sulla realtà suprema dicendogli che egli stesso è la realtà suprema. Dopo ventiquattro anni di studio il figlio si sente colto, arrogante e presuntuoso. Allora suo padre gli chiede: «Mio caro Svetaketu, dato che tu sei contento di te e orgoglioso delle tue conoscenze, hai mai cercato quell'in¬segnamento per il quale ciò che non si è ascoltato è come se fosse stato ascoltato, ciò che non si è pensato è come se fosse stato pensato, ciò che non si è conosciuto è come se fosse stato conosciuto?» Il figlio chiese come potesse esistere un simile insegnamento e suo padre rispose: «Mio caro, è come se da un pezzo di argilla si conoscesse tutto ciò che è fatto di argilla, restando tutte le diverse modificazioni null'altro che distinzioni di nome e di linguaggio riguardanti una sola realtà:l'argilla. Ciò significa che la varietà e la pluralità degli oggetti dell'esperienza è soltanto un travestimento della realtà unitaria che è alla loro base». L'insegnamento del padre arriva poi al suo culmine quando dice: «Questa sottile essenza anima tutte le cose; essa è l'unica realtà, essa è l'Atman; quello sei tu» (Tatvam Asì). Comprendendo solo intellettualmente l'insegnamento del Tatvam Asi, non si raggiunge la conoscenza del «Sé Supremo». La conoscenza intellettuale presuppone una dualità di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto. La conoscenza superiore è quella per mezzo della quale ciò che non è mai stato sentito viene sentito. Nella Brihadaranyaka Upanishad viene così descritta: Tu non puoi vedere colui che vede mediante la vista; tu non puoi udire colui che ode mediante l'udito; tu non puoi pensare colui che pensa mediante il pensiero; tu non puoi conoscere il conoscente mediante la conoscenza. Questo è il tuo Atman che è in ogni cosa (10).

 

In altre parole la conoscenza superiore oltrepassa la dualità soggetto-oggetto. Shri Sankaracharya, l'interprete più autorevole delle Upanishad, condensa tutto l'insegnamento sul quale si basa la sua filosofia detta Adaivata Vedanta, cioè Vedan¬ta non dualistica, nella maniera seguente:

Brahman Satyam, Jagan mitya, jivo daiviva, na apara-Brahman è il reale, l'universo è relativo, la coscienza individuale si identifica col (11) Elenjimittam, op. cH., Brahman, e non è realmente differente da Brahman Questo contenuto viene espresso molto efficacemente in un aneddoto: un pupazzo di sale voleva vedere l'oceano, va alla riva e si avvicina all'acqua; toccando l'acqua perde la mano. La sua curiosità era talmente forte che tocca l'acqua anche con i piedi che si dissolvono a loro volta. Nell’attimo in cui si sta dissolvendo completamente nell'oceano esclama: «Toh, lo sono l'oceano». Questa esperienza tradotta nel linguaggio upanishadico suone¬rebbe così:                        Aham Brahmasma - lo sono quello che sono. Lo stesso concetto viene ribadito nelle sue opere da Teilhard de Chardin, scienziato, paleontologo e mistico: (12) In seno a un oceano tranquillizzato, ogni sua goccia avrà coscienza di rimanere se stessa (12). Teilhard de Chardin, Opere, Milano, II Saggiatore, 1978, p. 401.

Jung affronta questo problema più di una volta nelle Opere, specialmente nel volume Psicologia e Religione. Parlando dei santi indiani cita Ramakrishna, uno dei presunti saggi, che dice: (13) Quanto pochi sono capaci di raggiungere l'unificazione (samadhì) e di liberarsi da questo lo (aham}. È raramente possibile. Discuti quanto vuoi, separa senza fine; questo lo ritornerà sempre a tè. Oggi abbatti il pioppo e domani troverai che è rigermogliato [...] Se non potete distruggere definitivamente questo «lo», trattatelo come «lo, il servitore» (13). C.G. Jung, Psicologia e Religione, in Opera vol. XI, Torino, Boringhieri, 1979, p. 589

Jung commenta l'insegnamento di Shri Ramana nello stesso capitolo e dice: Shri Ramana, ad esempio, chiama il suo corpo «questo zoticone». In contrasto con questo, e in considerazione della complessa natura dell'esperienza (emozione + interpretazione), il punto di vista critico ammette l'importanza del ruolo dell'Io cosciente, ben sapendo che se non ci fosse aham-kara [la consapevolezza dell'Io] non vi sarebbe nessuno al corrente d'un qualsiasi accadimento. Senza l'Io personale del Maharshi che, a quanto risulta dall'esperienza, esiste soltanto con lo zoticone (= corpo) di sua pertinenza, non ci sarebbe mai stato un Shri Ramana. Anche se vogliamo ammettere con lui che ormai non è più il suo lo che parla, ma l'Atman, sono la struttura psichica della coscienza e così pure il corpo che rendono possibili le comunicazioni attraverso il linguaggio (14). Secondo Jung, l'esperienza dell'identità tra Brahman e Atman, è un'esperienza mistica che ha dei paralleli anche in occidente, sebbene con un linguaggio e una termino¬logia diversi. L'identificazione tra Brahman e Atman non può avvenire ne per mezzo dei sensi, ne per mezzo del ragionamento, né attraverso la discussione, né mediante l'erudizione profonda e neppure per mezzo unicamente dello studio delle scritture; ci vuole invece una rigida e perseverante disciplina di purificazione dalle azioni e tendenze peccaminose, per controllare i sensi, i desideri e le passioni, per staccarsi dalle cose mondane. La prima parte degli esercizi dello yoga - il cosiddetto hata yoga -ci istruisce su questa disciplina. Oltre ciò le Upanishad propongono anche la triplice disciplina di sra vana (ascolto), manana (meditazione) e nidhidyasana (pratica). Il 95% della spiritualità consiste nel mettere la conoscenza in pratica. 4. // Karma Un altro argomento di particolare importanza sembra quello del Karma. L'espressione è di origine sanscrita e significa letteralmente azione, ma nella speculazione filosofico religiosa indiana ha assunto il senso di «conseguenza ineluttabile di qualsiasi tipo di azione (fisica, verbale o mentale)». - Secondo l'interpretazione del Karma come principio di causalità, a ogni causa corrisponde un effetto e a ogni effetto una causa. A ogni azione segue una reazione. - Il Karma come principio etico viene inteso nel senso di: «avrai il frutto di ciò che hai seminato». - Secondo gli insegnamenti indù, gli effetti delle proprie azioni non possono essere sperimentati tutti attraverso una sola vita, perché mentre si fruisce del risultato di qualche atto, si compiono nel contempo altre azioni e quindi si avranno nuovi frutti da raccogliere. Da questo fatto si deduce che l'anima deve rinascere per un certo periodo di tempo. Si crede dunque che l'anima fin dall'eternità nasca e rinasca. Questa dottrina della trasmigrazione dell'anima, che viene chiamata anche reincarnazione o metempsicosi, è il corollario necessario della dottrina del Karma. Il processo di reincarnazione avviene nel mondo fenomenico (samsara). Colui che adempie il proprio dovere (Dharma) progredisce nella vita fino all'esaurirsi di tutte le conseguenze delle sue azioni terrene, liberandosi definitivamente dal mondo fenomenico [Mukti), per unirsi al Brahman (Samadhi). ) I libri sacri indu vengono suddivisi in due categorie: sruti (l’udito), cioè la rivelazione e smriti (la memoria), cioè la tradizione orale. In questa seconda parte è compresa la Bhagavat Gita (la lode del Signore). La Gita , il cosiddetto Nuovo Testamento dell'induismo, espone chiaramente l'aspetto fondamentale di questo insegnamento con le seguenti parole: Dice il Signore: «Devi sapere che non c'è mai stato tempo in cui lo non fui e tu non fosti; e ormai non cesseremo mai di esistere. Come il corpo passa attraverso le fasi dell'infanzia, della giovinezza, della maturità e della vecchiaia, così l'anima passa da un corpo all'altro nelle successive incarnazioni e assolverà il suo compito» (16). Nel sistema filosofico di Shri Aurobindo (un altro degli interpreti autorevoli delle Upanishad) la reincarnazione è necessaria e indispensabile per il processo dinamico dell'universo. Il cosmo è una manifestazione o autorive¬lazione dello Spirito Supremo. Secondo l'insegnamento delle Upanishad, la creazione inizia dunque con un atto di separazione degli opposti uniti nella divinità. Dalla loro tensione scaturisce, come una potente esplo¬sione di energia, la molteplicità del mondo (17). Questo pensiero upanishadico suona sorprendentemente attuale e simile a certe teorie della fisica moderna. L'espansione spazio-temporale che segue all'esplosione originaria è, secondo Aurobindo, un processo evolutivo che ha inizio su un piano materiale per percorrere poi quelli della vita vegetativa e animale: attualmente ha raggiunto quello della mente umana, la quale deve evol¬versi ulteriormente per unirsi con il Brahman. Il succitato Teilhard de Chardin esprime lo stesso pensiero nella maniera seguente: La materia originaria contiene già in sé la coscienza come elemento organizzativo, per cui l'evoluzione si configura come un processo non puramente deterministico ma anche teleologico. L'evoluzione dalla previta (mondo inorganico) alla vita (biosfera) tende alla creazione dell'uomo e del pensiero (noosfera). L'uomo non è ancora tuttavia al punto finale: l'universo e in esso l'uomo e la sua storia, tendono a un punto omega (18). Haridas Chaudhuri, una delle massime autorità dei nostri tempi dello yoga integrale, approfondisce l'argomento maggiormente . Secondo lui l'energia si manifesta sia nel moto espansivo che nella crescita evolutiva. L'u¬niverso è in espansione. Le galassie si allontanano l'una dall'altra a velocità enorme. In questo processo l'energia viene.dissipata. L’essenza dell'evoluzione consiste invece nell'autoincen¬tramento, nella crescente organizzazione interna e nella complessificazione strutturale. Questo è il motore del processo evolutivo. Quando molecole diversissime come il carbonio, l'idrogeno, l'ossigeno, l'azoto, ecc. si combinano in propor¬zioni definite, nasce una novità qualitativa, cioè la cellula vivente; La cellula possiede la capacità emergente di funzioni nuove come la mobilità spontanea, la crescita immanente dall'interno, l'autoespansione, l'autoregolazione, l'autoriproduzione, ecc. Nella filosofia moderna questa è la legge dell'evoluzione emergente o creativa. Fin qui il problema viene considerato dal punto di vista filogenetico. Dal punto di vista ontogenetico, prevale invece la legge del Tapa: quando una persona, in virtù di una lunga pratica di auto-organizzazione intelligente e finalizzata genera il calore psichico interno derivante dall'energia creativa spirituale (appunto il Tapa), allora nuove visioni di verità, bellezza e perfezione illuminano il suo orizzonte mentale e trasformano il suo essere totale in una fonte di creatività. Dal punto di vista estetico la legge del Karma fa si che l'equilibrio universale appare come armonia e ordine (Rta) in una moltitudine di sensazioni. Senza l'equilibrio che domina le forze contrastanti di auto-espansione estroversa e auto-organizzazione inferiore, l'universo perderebbe l'ordine cosmico che, sempre secondo questo autore, è lo spirito di armonia che tiene creativamente insieme l'entropia disintegrante della materia e la negentropia evolutiva della vita. Cosi il Karma svolge una funzione di equilibrio nell'universo. Intimamente legato al concetto di Karma è quello del Dharma. Vivere il proprio Dharma vuoi dire vivere la propria potenzialità spirituale, cioè la scintilla divina che è in ognuno di noi e che ha infinite potenzialità di perfe¬zione. Non si può vivere il Dharma supremo senza il Dharmasamsara, cioè gli obblighi, i doveri e i piaceri della vita quotidiana. È significativo l'episodio raccontato da Jung, della visita del tempio di Surya (il Sole) nello stato di Orissa; Jung è sbalordito, a suo dire, dalle «sculture oscene di squisita fattura»: Obiettai - indicando un gruppo di giovani contadini che stavano a bocca aperta davanti al monumento, ammirandone la magnificenza -che quei giovani in quel momento stavano subendo tutt'altro che un processo di spiritualizzazione, e che avevano piuttosto l'aria di essere tutti presi da fantasie sessuali. Replicò il Pandit che accompagnava Jung: «Ma proprio questo è il punto. Come potrebbe mai realizzarsi in loro lo Spirito, se prima non soddisfacessero il loro Karma? Queste immagini chiaramente oscene sono qui proprio allo scopo di ricordare agli uomini il proprio Dharma (20). Quando Jung raccontò questo episodio al suo amico indologo Heinrich Zimmer, questi avrebbe commentato: «Finalmente sento qualcosa di vero sull'India». A quanto pare, la spiritualità indù ha dei risvolti molto pratici. Se il Karma è la spinta volitiva del passato, il Dharma è l'attrazione evolutiva verso il futuro. Perciò la forza della storia del passato (Karma) e la potenzialità del futuro insita in ognuno (Dharma) sono due poli dialettici dello stesso processo di crescita. Jung nel suo commento al libro tibetano della grande liberazione esamina il concetto del Karma in un'ottica psicologica . Secondo la sua opinione, ciò che viene ereditato di generazione in generazione e da individuo a individuo non è la memoria prenatale bensì la potenzialità mnemonica a richiamare tali ricordi nella mente. Questi ricordi secondo le Upanishad sono depositati al momento della morte nel corpo sottile. Il corpo sottile non è ne visibile ne tangibile, ma è costituito di sensi interni e serve come nesso tra l'Atman e il corpo materiale. Alla morte l'anima abbandona il corpo materiale ma trattiene il corpo sottile con l'impronta di tutti gli atti: il corpo sottile viene abbandonato solamente nella liberazione definitiva. Secondo Jung i ricordi del passato formano il mondo dell'illusione karmica come viene descritta nel libro tibe¬tano dei morti o si manifestano nelle fantasie dissociative di certi psicotici. Il processo inferiore, l'incontro con il dolore e il male è un dato di fatto perché «le immagini karmiche appaiono nella loro terrificante crudezza» (22). Dal punto di vista clinico, la dottrina del Karma contribui¬sce a far comprendere, in parte, la sofferenza umana nelle manifestazioni acute della malattia mentale. Sia la dottrina upanishadica che quella junghiana non pretendono di risolvere alcunché spiegando i nessi causali della sofferenza. La risposta delle Upanishad al problema del Karma, almeno nella sua accezione negativa di sofferenza retributiva è il concetto di Dharma. Vivendo il proprio Dharma, cioè vivendo la presenza divina in ognuno, si comprende e si supera il Karma. Anche la Dharma-samsara, cioè l'adempimento degli obblighi e doveri della vita quotidiana, è in ultima analisi un mezzo di congiungimento con l'Assoluto. Jung lo formula diversamente, ma secondo me in maniera sufficientemente limpida e senza equivoci: La domanda decisiva per un uomo è se è in rapporto con qualcosa di infinito o no. Questo è il vero problema della sua vita. Solo se sappiamo che la cosa che ci interessa veramente è infinita, possiamo evitare di fissare il nostro interesse sulle futilità e su tutti quei tipi di scopi che non sono realmente importanti. [...] Più un uomo pone l'accento sui suoi falsi beni, meno sensibilità ha per quello che è essenziale. [...] Se comprendiamo e sentiamo che qui in questa vita abbiamo un collegamento con l'infinito, cambiarne desideri e atteggiamenti. In ultima analisi contiamo qualcosa solo in virtù di quel che di essenziale incarniamo, e se non la incarniamo, la vita si isterilisce. Nei nostri rapporti con gli altri uomini, quindi, il problema cruciale è se nel rapporto viene espresso un elemento di infinito. [...] La vita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma. La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vede al di sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce come un'apparizione effimera. Quando pensiamo all'eterna crescita e scomparsa della vita e della civiltà, non possiamo sfuggire a un'impressione di nullità assoluta. Eppure non ho mai perso la sen¬sazione di qualcosa che vive e che conserva sottoterra il fluire eterno. Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Il rizoma rimane (23). 5. L'identità tra Brahman/Atman e la Funzione Simbolica Nell'accezione clinica la funzione simbolica viene intesa come il processo d'unione degli opposti consci e inconsci. Nella psicologia junghiana la regressione della libido causata dal conflitto tra i complessi consci e quelli inconsci, neutralizza il conscio e attiva la funzione strutturante compensatoria che si concretizza attraverso la scelta di una particolare immagine onirica. Nei Veda c'è un bellissimo brano che illustra questa fase, tra l'altro commentato anche da Jung: Vishnu cadde in estasi e nel suo sopore diede alla luce Brahma, che ergendosi maestoso su di un flore di loto si levò dall'ombellico di Vishnù portando con sé i Veda che lesse con fervore (nascita del pensiero creativo dall'introversione) (24)                                                                                               A causa della disattenzione estatica e introversa di Vishnu, il mondo fu inondato da un diluvio (il risultato di troppa introversione). Sfruttando la confusione generale il demonio ruba le sacre scritture e le nasconde negli abissi. Brahma sveglia Vishnu dal suo sonno. Vishnu prende le sembianze di un pesce, scende negli abissi, vince il demonio e recupera le sacre scritture. Jung procede nel commento dicendo: Questo è un modo primitivo di descrivere l'ingresso della libido nel dominio interiore dell'anima, l'inconscio. Qui, attraverso l'introversione e la regressione della libido, vengono costellati contenuti che prima erano latenti. Questi, come dimostra l'esperienza, sono le immagini primordiali, gli archetipi che, mercé l'introversione della libido, sono talmente arricchiti dai ricordi individuali che la coscienza è in grado di percepirli [...] L'archetipo costellato è sempre l'immagine primordiale che rispec¬chia la necessità del momento (25) Nei Tipi psicologici Jung afferma: Mediante lo yoga i rapporti con l'oggetto vengono introversi e mercé lo svuotamento del loro valore, immersi nell'inconscio, dove, come abbia¬mo già detto, essi possono intrecciare nuove associazioni con altri contenuti inconsci e perciò ritornare modificati all'oggetto, dopo aver compiuto la pratica del tapas (26). Nell'ultima fase del processo simbolico, cioè dopo il confronto con l'inconscio, l'Io non è più l'autore ma lo spettatore in attesa che non controlla l'accadere ma si lascia accadere (Sich geschehen lasserì). Questo porta alla percezione di una sintesi tra il conscio e l'inconscio. Solo l'esperienza vitale è il criterio di verifica di tale percezione. Il filo conduttore principale della succitata Gita, cioè l'e¬sortazione di Krishna ad Arjuna - «Tu devi liberarti dagli opposti» - si avvicina molto al concetto della percezione della sintesi nel processo simbolico. La liberazione degli opposti avviene in uno stato meditativo senza contenuti, ne immagini; possiamo ipotizzare, secondo Jung, «uno stato nel quale la libido viene fornita nella maniera del caldo nell'incubatrice». L'identità risultante tra esterno e interno, tra Brahman e Atman, viene descritta, come abbiamo detto precedentemente, come Tatvam Asi (Tu sei Quello). Sempre secondo Jung, Nel Brahman, ente creatore e fondamento dell'universo, le cose perven¬gono sulla retta via [Rta] giacché in lui esse eternamente si dissolvono e si ricreano [...] Il senso della vita consiste nel percorrere questa via del mezzo e nel non allontanarsene mai sconfinando negli opposti (27).  Liberando l'individuo dagli opposti si arriva all'unione stes¬sa degli opposti. Psicologicamente è uno stato d'animo. Secondo il mio punto di vista, le varie fasi cliniche del processo simbolico - e principalmente il conflitto tra complessi consci e inconsci, e la regressione della libido che porta alla neutralizzazione del conscio e all'attivazio¬ne delle potenzialità compensatorie della psiche - si rispecchiano nel processo di liberazione dai cinque invo¬lucri upanishadici (corpo fisico, corpo vitale, involucro mentale, involucro razionale e l'involucro costituito dai concatenamenti causali karmici). La liberazione da questi involucri non significa l'eliminazione fisica bensì la relati¬vizzazione del mondo fenomenico. Per usare un'espressione upanishadica, Deham na Aham: Koham? So ham (lo non sono corpo materiale: ma allora cosa sono? lo sono Quello). In altre parole, la mia identità è divina, Vorrei raccontarvi alcuni sogni di pazienti per illustrare quanto affermato finora. Ricordo solo che presi a sé, indipendentemente dalla storia personale del sognatore, dall'atteggiamento conscio del paziente e dal rapporto particolare che viene a stabilirsi tra l'analista e l'analiz¬zando, i sogni non possono rendere - almeno dal punto di vista clinico - quella ricchezza di significati che gli è propria e tanto meno essere indicativi del processo maturativo. Sono nella mia stanza. Attraverso la finestra guardo il cielo e vedo nuvole oscure che si addensano all'orizzonte. Corro dall'altra parte della camera e vedo dall'altra finestra un enorme lenzuolo bianco che scende dal cielo e prende fuoco. Cerco di uscire dalla stanza ma la porta è chiusa e ho perso la chiave. Giganteschi uccelli rapaci scendono a piombo dal cielo verso la massa che fugge dall'incendio. Vediamo un altro sogno dello stesso paziente ventiset¬tenne: Vedo un uccello grande quanto un elefante. L'uccello è bianco con una macchia nera sulla testa. È una femmina e mi insegue per valli e campi Cerco di nascondermi dietro le rocce, ma non ci riesco. A un certo punto entro in una villa protetta da sbarre. Dalla villa una ragazza con un fucile mi spara [...] Penso che questi due sogni non necessitano di alcun commento, in quanto illustrano in modo quasi fotografico la dissociazione e l'angoscia che scaturiscono da imma¬gini irrazionali incontrollabili. Dopo circa dieci mesi di lavoro analitico, i suoi sogni cominciarono a trasformarsi. Eccone uno: Scendo nel sotterraneo della nostra casa in campagna. I soffitti sono bassi, i corridoi lunghi, gli spazi vasti. Scendendo sempre più giù, insieme al mio amico archeologo, vedo delle stupende pitture murali, molto antiche. Ho la sensazione di aver scoperto qualcosa di prezioso, forse l'immagine di una donna che porta dell'acqua [...] In questo sogno si può evidenziare il percorso della libido nel mondo interiore della psiche per mezzo dell'introversione, ma questa volta, a differenza dei primi sogni, in maniera compensatoria. Nel sogno che segue, di un uomo di 39 anni verso la conclusione dell'analisi, è evidente il motivo dell'unione degli opposti: Vedo il polo nord. Il sole e la luna si avvicinano. Un bambino unisce il sole e la luna con una corda che assume la forma della lettera S. Il padre del bambino ha solo una camicia addosso, ma non sente freddo. I paralleli tra lo yoga e i processi del percorso analitico sono molti. Una prima serie di esercizi dello yoga è finalizzata al miglioramento dell'igiene fisica (purificazione, autodisciplina, rilassamento) che porta a una maggiore consapevolezza dell'immagine corporea. Le tecniche attinenti alla concentrazione e alla meditazione sono analoghe al lavoro di introversione richiesto dall'analisi. Incidentalmente va osservato che il significato etimologico dell'espressione Hatayoga è l'unione tra il sole (ha) e la luna (ta). Nell'impostazione analitica classica il momento predominante è l'analisi dei sogni, mentre nelle tecniche yoga viene data maggiore importanza all'osservazione distaccata delle immagini attivate dalle tecniche stesse. Secondo Jung, la percezione della sintesi risultante dall'unione degli opposti è molto simile alla percezione della retta via (Rta), che è il risultato dell'unione dell'Atman con il Brahman. L'avvicinamento tra la posizione upanishadica e quella junghiana si può cosi evidenziare sia nella prassi che nei fondamenti teorici. L'identità tra Brahman e Atman viene ulteriormente formulata nelle Upanishad come Sat-Chit-Ananda (Sat = Realtà o Essere, Chit = Coscienza, Ananda = Gioia): cioè la gioia che scaturisce dalla sintesi tra l'essere e la coscienza. Le riflessioni teoriche di Jung sulla Funzione Trascendente vanno inserite, a mio parere, nel contesto della problematica fondamentale che percorre tutto il pensiero speculativo occidentale attraverso ben venti secoli, cioè la corrispondenza tra l'ordine dell'essere e l'ordine conoscitivo: nel linguaggio upanishadico appunto tra il Sat = Essere e il Chit = Coscienza. Senza entrare approfonditamente in merito a questo problema, così vasto, si può tranquillamente affermare che fu affrontato da 1. Kant e da N. Cusano e più recentemente da E. Cassirer. Dalla lettura delle opere junghiane mi risulta che Jung accoglie molte delle speculazioni di Nicolaus Cusano. Forse è interessante osservare che sia il con¬cetto di analogia, che è alla base del principio dell'unificazione degli opposti, che la stessa espressione coincidentia oppositorum sono stati usati in modo autorevole e specifico da quest'ultimo: Dio è coincidentia oppositorum, che è la complicazione del molteplice nell'uno; all'inverso, il mondo è l'esplicazione dell'uno nel molteplice. Tra i due poli si ha un rapporto di partecipazione, per il quale Dio e il mondo si compenetrano (...) il mondo si configura come un'immagine, un'imitazione dello stesso essere divino, ovvero come un secondo Dio o «un dio creato" (28). Enciclopedia della filosofia, op. cit., alla voce: <> La somiglianza tra questo brano e la dottrina upanisha¬dica dell'identità tra Brahman e Atman, è sorprendente. 6. Osservazioni conclusive Questo personale modo di lettura ha per me il valore di una ricerca delle radici della mia cultura nativa. Ricerca che sovente rimane circoscritta nel campo della conoscenza intellettiva. Erano per me assai emozionanti le rarissime volte che questa conoscenza si infiltrava nel mio campo esperenziale, nel lavoro con i pazienti. Il più delle volte, nella prassi quotidiana con i malati, ci si ritrova alla ricerca del senso, del senso della vita, indipendentemente dal livello culturale del paziente. Durante le sedute non ci si limita a parlare solo di argomenti psicologici. Spesso non è neanche possibile fare una lettura psichica di tutto. Per il maestro zurighese «la personalità globale dell'analista è l'unico equivalente adeguato alla personalità del paziente» (29). C.G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Roma, Monda-dori, 1985, p.61.  La persona¬lità globale dell'analista, secondo me non può essere circoscritta solo in termini psicologici e tanto meno è possibile suddividerla artificialmente durante le sedute. La conflittualità tra i vari complessi e la manifestazione della funzione compensatoria dei simboli sono abbastanza evidenti nel lavoro quotidiano dell'interpretazione dei sogni. D'altra parte, lo studio delle tecniche yoga (inteso come processo di relativizzazione dei cinque involucri che impediscono all'uomo di vivere una vita armoniosa) sembra molto simile nella sostanza e nello scopo a un certo tipo di lavoro analitico. Naturalmente il linguaggio, i presupposti culturali e i riferimenti mitologici sono molto diversi. Anche riguardo a questo problema la posizione di Jung non è univoca. Da una parte egli dice: (30) Come europeo non posso prendere nulla in prestito dall'oriente, ma devo plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisce il mio intimo o mi apporta la natura (30). C.G. Jung, Ricordi, sogni..., op. cit., p. 328.

Dall'altra afferma: L'aspetto del Karma è ineliminabile se si vuole comprendere più a fondo la natura di un archetipo (31). E più in generale: Siccome l'atteggiamento dell'europeo enfatizza fortemente l'oggetto, lo deruba del suo rapporto con l'uomo inferiore. L'orientale è invece più radicato a terra, e vive la radice profonda di tutto l'essere. E perciò noi, come psicologi, abbiamo il dovere di comprendere realmente e fino in fondo l'Oriente (32) Come si può comprendere realmente l'Oriente senza assimilarlo? (A meno che la comprensione sia su un piano puramente intellettivo). Come si può assimilarlo senza interiorizzarlo? A quanto pare, non appena Jung usa il linguaggio concettuale, il contenuto del discorso viene a polarizzarsi in tesi e antitesi, perché l'essenza stessa della mente conscia nella quale ha origine il lin¬guaggio concettuale è discriminazione, polarizzazione e separazione. Su un piano invece esperienziale, si costella nello stesso Jung un'integrazione fortemente complemen¬tare tra Oriente e Occidente. Cosi, per esempio, quando parla del rapporto dell'individuo con l'infinito nel brano già citato: La vita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma. La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vede al di sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce come un'ap¬parizione effimera. [...] Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Il rizoma rimane (33). Secondo Jung allora la vera essenza della vita non va cercata nella fioritura di una stagione, bensì nel rizoma nascosto che vive nel fluire eterno. Secondo le Upanis¬had, gli involucri fisici, mentali, karmici, ecc. sono effimeri. Quello che è reale è l'identificazione con l'Assoluto. Da un punto di vista critico la domanda cruciale sembra; «Può esistere una coscienza senza l'Io?» Penso che la psicologia intesa come discorso sulla psiche non possa esimersi dal rispondere un secco «No». Il no è natural-mente una risposta mediata da un linguaggio concettuale, dialettico e polarizzante. Se invece la psicologia è anche un discorso che procede dalla psiche, allora il linguaggio che si presta è il linguaggio dell'esperienza dell'unità degli opposti; la coscienza dell'Io che si unisce con la coscienza del «Sé», come nell'aneddoto del pupazzo di sale che voleva vedere il mare e nel momento della dissoluzione esclama: «Toh, lo sono l'oceano», o come dice Teilhard de Chardin: «In seno a un oceano tranquillizzato, ogni goccia avrà coscienza di rimanere se stessa», o come dice Shri Sankaracharya interpretando le Upanishad: «Brahman è il reale, l'universo è relativo, la coscienza individuale si identifica col Brahman, e non è realmente differente da Brahman» (34). Quando il linguaggio concettuale risalta la funzione pensiero, il linguaggio esperienziale -  simbolico mette in luce la funzione dell'intuizione. Abbiamo bisogno di tutti e due i linguaggi, così come abbiamo bisogno di tutte le funzioni. Comunque il secondo tipo di linguaggio sembra ben adattarsi all'amplificazione dei contenuti del proprio vissuto con l'aiuto dei miti, delle religioni o di ogni altra produzione artistica, letteraria o fantastica; in questo caso specifico appunto quelle dell'India. I risultati ottenuti da Jung sembrerebbero primo, una conferma delle sue ipotesi dell'esistenza di un inconscio non-individuale; secondo, la possibilità di capire la struttura reciprocamente complementaria di culture diverse; terzo, un'indicazione, benché minima, di come usare le immense potenzialità curative delle religioni nel contesto clinico, considerandole alla stregua di grandi sistemi terapeutici. Esaminare gli sviluppi psicologici individuali in rapporto alle diversità culturali sembra un compito tanto affasci¬nante, specie perché il linguaggio esperienziale supera le barriere culturali, quanto difficile. Mi accontenterei invece di affermare che l'intervento psicologico nella sua accezione riduttiva, cioè tralasciando gli aspetti medici e spirituali, non può sempre dare delle risposte soddisfacenti. Arricchire il contesto analitico facendo dei riferimenti incrociati con campi di vitale importanza come quello spirituale, può forse offuscare la specificità dell'intervento psicologico, ma fa guadagnare nella ricchezza dell'incontro tra due esseri umani, tutti e due in cerca di senso.

                                            Il senso della vita.

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