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Lo Spirito ... questo sconosciuto

Lo Spirito ... questo sconosciuto - Lo Spirito

Una voce che parla nel buio.

Una voce calda, affettuosa, a tratti energica e perentoria, più spesso dolce ed amabile, venata di umorismo e buon umore. Una voce saggia, amica, che migliaia di esseri umani son venuti ad ascoltare, alla quale hanno confidato pene segrete, e che ne sono tornati consolati.
                       
Una normale casa di campagna, di contadini del sud della Francia, in un angolo racchiuso come uno scrigno fra le Alpi e le Cevenne, nell'antica Occitania.
La donna cui appartiene quella voce è paralizzata in tutte le membra, non può muovere neppure un braccio, e giace distesa, torturata da sofferenze indescrivibili. Le sono comparse le stimmate e, ogni venerdì, rivive i tormenti della Passione di Cristo.
Si dice abbia il dono della profezia; si dice anche che sia tormentata da un misterioso Avversario - ch'ella chiama, semplicemente, "Lui" - che cerca di offuscare la sua serenità, peraltro senza mai riuscirvi, e spesso la getta in terra, per dispetto. Lo farà anche l'ultimo giorno della sua vita terrena: la troveranno a terra e, poco dopo essere stata adagiata nuovamente nel suo letto, chiuderà gli occhi per sempre ( sempre in lotta  con lo Spirito come Padre Pio ). 
Giace così da tantissimi anni: dal 1926, quando è caduta improvvisamente malata (di una strana malattia che sfugge alla scienza) e vi resterà sino alla fine, nel 1981. Cinquantacinque anni: immobile, al buio, senza poter fare un gesto.
La cosa più stupefacente è che la donna, in tutto quel tempo, non ha mai mangiato alcun cibo né bevuto una goccia d'acqua: i muscoli della sua gola sono così contratti che non possono ingerire nulla.
All'inizio i suoi familiari hanno tentato di alimentarla, di farle bere almeno un caffè: impossibile, ogni cosa viene subito rigettata. L'unico cibo solido ch'ella abbia mangiato, in tutto quel tempo, è stata la particola consacrata: solo per lasciar passare l'ostia le sue labbra si sono aperte e il suo esofago ha inghiottito qualcosa.
Gli scienziati non possono spiegare una cosa del genere: per loro, un essere umano, semplicemente, "non può vivere" senza mangiare e senza bere per più di qualche giorno: figuriamoci anni e anni. Del resto, non si curano di spiegare il fenomeno; si limitano ad ignorarlo.
La donna si chiama Marthe Robin. Contadina, figlia di contadini, ha avuto un'infanzia e una giovinezza perfettamente normali. Poi, la caduta, un voto misterioso fatto per prendere su di sé le sofferenze del mondo, la caduta, la malattia, l'infermità. E la voce.
La sua porta era sempre aperta, bastava mettersi in fila e attendere il proprio turno, Con benevolenza, con estrema delicatezza, ascoltava e consigliava tutti, per tutti aveva una parola buona. E' una mistica, certamente; ma dotata di un solido Spirito pratico, come ogni contadino che si rispetti. I suoi consigli, le sue raccomandazioni erano piene di concretezza, di buon senso, di realismo.
Con l'aiuto di padre Finet, suo confessore, fondò oltre sessanta "focolari della carità", sparsi in tutto il mondo, dove chiunque poteva ricevere aiuto e conforto.
Incolta, non aveva studiato e aveva letto ben poco, oltre i Vangeli: pure, la sua intelligenza e la sua sensibilità la mettevano in grado di intrattenersi anche con persone di grande cultura, perfino di citare, inconsapevolmente, illustri filosofi - magari correggendone il pensiero.

Come quella volta in cui, a un professore ateo che con lei s'intratteneva regolarmente, disse:

 "Tu non lo cercheresti, se Lui non ti avesse già trovato".
Il professore sapeva che quella era una frase di Pascal;

 solo che Pascal aveva scritto nei "Pensieri":

"Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato"; lo disse alla sua amica.

E lei rispose: "Pascal non poteva voler dire una cosa già di per sé evidente."

 

 E quel professore, che aveva curato l'edizione delle opere di Pascal, ricordò che spesso il filosofo sbagliava a scrivere le parole, specialmente quando aveva fretta. La frase di quella donna senza cultura aveva corretto, in meglio, la frase di Pascal; e, probabilmente, l'aveva riportata al suo significato originario.

Quella donna si chiamava Marthe Robin. Era nata nel 1902 in un villaggio della Drôme e lì trascorse tutta la sua vita. Modesta, appartata, riservata.
Tra i suoi visitatori capitò anche il filosofo Jean Guitton, accademico di Francia e grande ispiratore del Concilio Vaticano II, che ne rimase talmente affascinato da frequentare la sua stanza per molti anni, sino alla fine. Su di lei scrisse un libro commovente, "Ritratto di Marthe Robin" (1), dal quale riportiamo qualche passo significativo:

«Si parlava nel buio, senza poter osservare il volto, né interpretare le parole dal mutare dello scintillio degli occhi o dal tremito quasi impercettibile delle labbra. In altre parole, Marthe era interamente solamente, unicamente una voce. (...)
Per venticinque anni, Marthe fu per me solo un mormorio, una voce: una voce nel buio.
Voce sorprendente per versatilità, varietà, tenerezza nascosta, dolcezza e vigore. Voce melodiosa. Voce mutevole. Voce timida e pura all'inizio di un colloquio; voce quasi infantile, come di ragazzina. Voce scherzosa, a volte da monella. Voce discreta, voce sempre affettuosa. Voce che al principio somigliava a un uccello pronto a spiccare il volo, a una prima confidenza d'amore, a una piccola sorgente. Quella voce - io l'ascoltavo attentamente (come si isola in un'orchestra il solo flauto) - era modulata, punteggiata da suoni ora acuti ora profondi. Voce sempre chiara e trasparente. Voce come un mormorio, che non era però mai un bisbiglio. Voce decisa, senza esitazioni, neppure nella pronuncia lenta. Poi, a un tratto, in modo inatteso, quella voce delicata si irrobustiva, diventava intensa, capace di riempire la stanza, come se Marthe predicasse una crociata. Allora la voce si faceva ferma, corposa, da oracolo. Ed era quella la voce con cui Marthe dava i consigli che le sembravano importanti, fissava la direzione da prendere, proclamava la sua pietà, la sua speranza, con un'amorevolezza che non ammetteva replica, Come se la piccola Marthe non fosse più la stessa, ma fosse posseduta da un'altra Marthe, e quest'altra fosse ispirata. Molti visitatori sono rimasti impressionati da questo cambiamento di registro della voce, dai toni di rimprovero, di indignazione che seguivano il mormorio gentile, quasi infantile. In quei momenti Marthe aveva la risposta pronta e fulminea, come un arciere che scaglia le sue frecce. Poi tornava alla voce normale, gentile, dolce e confidenziale.
A volte si interrompeva, come se temesse di non trovare la parola adatta. Mi diceva: "Mi aiuti. Come posso esprimermi?".
Da questa voce si intuiva, a poco a poco, nell'oscurità della stanza, un volto estenuato, lunare. Ma io immaginavo una contadina giovane e robusta. Pensavo al desiderio di Nietzsche che in tutte le nostre parole "La pensosità e l'allegria si diano teneramente la mano".» (2)

Marthe Robin: un essere umano ridotto all'essenziale. Una pura voce nel buio che ascolta, che risponde per anni e anni, a chiunque bussi alla porta. Come se più non avesse un corpo, come se fosse già "oltre". Avrebbe voluto morire e non lo nascondeva; ma il suo confessore le aveva detto che c'era ancora bisogno di lei.
Ma che cos'era la morte, per Marthe Robin, per un essere umano così ridotto all'essenziale?
Lo possiamo desumere dall'espressione caratteristica che adoperava per parlare di una persona di cui le avevano riferito che era morta. Lei diceva: "Allora, è compiuta". Compiuta: solo questo.
Una persona, uscendo dalla vita materiale, non sparisce nel nulla, ma "si compie", ossia si realizza pienamente. Cadono i veli e comincia qualche cosa di eterno. Per usare le sue parole precise:

«Stupisco la gente quando dico che vivo per morire, che la morte è l'idea base e il senso della mi avita. Il fatto è che la morte non segna ai miei occhi l'ora della dissoluzione di una creatura, ma al contrario il suo vero potenziamento. Morire sarà per me un vantaggio, poiché il grande effetto della morte sarà di dissipare il velo d'ombra che mi nasconde una meraviglia.» (3)

La vita totalmente altruistica di Marthe Robin, la sua accettazione della sofferenza, lo stesso prodigio della sua sopravvivenza fisica fino all'età di 79 anni "senza alimentarsi" lasciano intravedere quel che potrebbe divenire l'essere umano se si impegnasse a fondo per trasformare ontologicamente e per trascendere la propria natura: un "liberato".
Di che cosa non sarebbe capace una simile umanità, qualora prendesse esempio da quelle poche, grandi anime che hanno saputo ridursi all'"essenziale"? Che hanno lasciato cadere le maschere, le astuzie, le strategie con le quali ci camuffiamo per meglio inseguire le brame disordinate dell'ego, del possesso, del dominio, senza peraltro mai trovarvi che degli amarissimi piaceri e delle soddisfazioni sempre fuggevoli, sempre minacciate; per tentar di spegnere una sete che, invece, continua a crescere quanto più beviamo dalla fonte sbagliata?

Si racconta che una volta, durante uno di quei furiosi tifoni tropicali che si abbattono periodicamente sulle coste dell'India meridionale, a Pondichéry, qualcuno aprì la porta della stanza in cui Sri Aurobindo stava scrivendo e meditando, forse per affrettarsi a chiudere le imposte. Ma non ce n'era bisogno. Aurobindo era lì, al tavolo, che scriveva i suoi poemi immortali, totalmente concentrato, immerso in mezzo alle carte. Non un foglio era volato via; non un fiato di vento era entrato nella stanza, "benché le finestre fossero spalancate".
Il tifone non poteva entrare: un muro invisibile, compatto ostruiva l'ingresso alle forze scatenate della natura: il muro dei pensieri estatici del grande mistico, "così compatti da raggiungere la solidità della materia".
Aurobindo era un grande mistico. Marthe Robin è stata una grande mistica.
Ma chi è il mistico? Semplicemente, un essere umano che, dopo essersi liberato di ogni strato di ciò che è superfluo, l'uno dopo l'altro, si è avvicinato più che mai all'essenziale. Forse, quando l'ultimo strato cade a terra - come accade nella morte - ciò che emerge è il volto di Dio.

Osserva ancora Jean Guitton:

«(...) Marthe era forse uno dei primi esemplari di quello che io chiamo "homo msysticus" e che è il seguito dell'"homo sapiens".
Se il mondo è davvero "una macchina per fare santi"; se l'evoluzione è un "theodromo"; se il senso dell'evoluzione attraverso le specie è, superando delle soglie, di portarci a stati sempre più improbabili; se lo scopo ultimo di questa cavalcata è di produrre alcuni esemplari di esseri umani più perfetti (i quali, come ogni "qualità", sarebbero una quantità allo stato nascente), allora potrebbe accadere che la nostra umanità si innalzi, progredisca.» (4)

Penetrare il senso di una vita come quella di Marthe Robin, penetrare il senso della sua morte ci potrebbe avvicinare almeno un poco al grande mistero dell'Essere, che è la nostra vocazione e la nostra chiamata. Del resto, anche Platone sosteneva, per bocca di Socrate (nel "Fedone") che tutta la vita umana non è che preparazione alla morte.
La modernità non vuol pensare alla morte, evita perfino di nominarla: ne è semplicemente terrorizzata perché, avendo cacciato dal proprio orizzonte ogni aspirazione alla trascendenza, ogni tensione verso l'Assoluto; avendo abolito o totalmente stravolto concetti quali Grazia, anima, speranza e amore, in essa non vede altro che annientamento e putrefazione, ossia la crocifissione del proprio orgoglio, l'umiliazione della propria "hybris".
La vita è diventata una tragica commedia in un mondo vuoto e allucinato, uno spettacolo nauseante, una beffa e un assurdo. Un assurdo doloroso, oltretutto, come sosteneva Sartre.

Cediamo ancora la parola a Jean Guitton:

«Sartre diceva che la vita è una passione inutile. Sartre non credeva di aver detto una cosa tanto giusta. Proprio lui mi offre la migliore definizione di Marthe. Poiché la passione di Marthe Robin fu una "passione utile".» (5)

Mi chiedevo prima: cosa c’è dopo la morte ?

 

La vita è la risposta. !!

 

 Certo non sto aspettando per vedere di presenza …

 

 Ma che cos'era la morte, per Marthe Robin, per un essere umano così ridotto all'essenziale?
Lo possiamo desumere dall'espressione caratteristica che adoperava per parlare di una persona di cui le avevano riferito che era morta. Lei diceva: "Allora, è compiuta". Compiuta: solo questo.

( come vien detto alla fine di ogni “giorno” della Creazione biblica )
Una persona, uscendo dalla vita materiale, non sparisce nel nulla, ma "si compie", ossia si realizza pienamente. Cadono i veli e comincia qualche cosa di eterno. Per usare le sue parole precise:
                        «Stupisco la gente quando dico che vivo per morire, che la morte è l'idea base e il senso della mia vita. Il fatto è che la morte non segna ai miei occhi l'ora della dissoluzione di una creatura, ma al contrario il suo vero potenziamento. Morire sarà per me un vantaggio, poiché il grande effetto della morte sarà di dissipare il velo d'ombra che mi nasconde una meraviglia.» 

 

Ma chi è il mistico?

Semplicemente, un essere umano che, nella quotidiana contesa con il “Lui” nel tempo che trascorre, non nel tempo “Kairòs” ,dopo essersi liberato di ogni strato di ciò che è superfluo, l'uno dopo l'altro, si è avvicinato più che mai all'essenziale. Forse, quando l'ultimo strato cade a terra - come può accadere con,durante o nella morte - ciò che emerge è il suo vero aspetto, che corrisponde al volto di Dio.

Come quella volta in cui, a un professore ateo che con lei s'intratteneva regolarmente, disse: "Tu non lo cercheresti, se Lui non ti avesse già trovato".               -----------( Attenzione ai due   “Lui” )------

 

Come opera, tenta di prevalere, di sopraffare, “Lui”: tenta  ( a volte ci riesce ) di interagire con orgoglio, arroganza, presunzione, collera, rudezza e ignoranza sono le qualità caratteristiche degli uomini di natura demoniaca, o figlio di Prtha.

Le qualità divine portano alla liberazione, mentre le qualità demoniache portano alla schiavitù. Ma non temere, figlio di Pandu, tu sei nato con qualità divine...

 

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